Ieri eravamo in piazza a urlare a gran voce per l’ennesima volta l’ovvio: che non ne possiamo più di un sistema del genere, che di lavoro non si può morire, lo dobbiamo alle 268 vittime del primo quadrimestre del 2024 e a tutti gli altri.
Le indagini del professor Omizzolo parlano chiaro: lavoratori e lavoratrici a nero, turni di 14 ore (per i più fortunati “solo” 12) per 7 giorni alla settimana, paghe di 50 centesimi l’ora, 3€ per i più fortunati, obbligo di fare saluti romani a effigi Mussolini per “insegnare l’italianità”.
Assassini come Lovato, perché bisogna chiamare la gente coi loro nomi: assassini, la cui azienda sul sito dell’Ufficio Camerale risulta avere solo 4 dipendenti con 2 milioni di € di fatturato annuo, com’è possibile che numeri del genere, assolutamente fuori dal mondo, non abbiano fatto scattare un campanello d’allarme alla guardia di finanza, all’ispettorato del lavoro, ai carabinieri o a qualsiasi altra forza dell’ordine?
Ma tanto a noi cosa ce ne frega? Finché a morire saranno gli immigrati nei campi pagati manco 1€ l’ora la cosa in che modo ci tange? È questo uno degli grandi problemi che ci affligge, che dall’alto del nostro privilegio classista, quello di non dover emigrare, finché a rimetterci la pelle è un lavoratore non qualificato che ce ne importa? È solo un ingranaggio, un pezzo che si può sostituire, un danno collaterale. E quindi il lavoro che dobbiamo fare è anche culturale, per decostruire il razzismo interiorizzato che ci permette di rimanere indifferenti e non tremare dalla rabbia e l’indignazione davanti al fatto che 3 persone ogni giorno tornano a casa in una bara.
La verità è che la strada da percorrere è una sola e né Meloni né Rocca sono intenzionati a percorrerla: aumentare il personale dell’ispettorato del lavoro, applicare le leggi contro il caporalato (come ad esempio la 199/2016 e la 146/2021) e approvare in parlamento la legge di iniziativa popolare per l’introduzione di reato di omicidio sul lavoro promossa da Rete Iside e Unione Sindacale di Base.